di Valentina Daelli
La sua uscita nelle sale cinematografiche il giorno di San Valentino è stata una trovata di marketing di sicuro successo: il film di Sam Taylor-Johnson tratto dal best-seller “Cinquanta sfumature di grigio” ha guadagnato nel primo weekend di programmazione quasi 82 milioni di dollari soltanto negli Stati Uniti, con un totale di quasi 249 milioni su scala mondiale. Numeri che pongono il film tra le uscite di maggiore successo negli ultimi anni, superando gli incassi di Avatar del primo weekend.
Lasciando da parte la qualità artistica della pellicola, come se la cava “Cinquanta sfumature” nella rappresentazione della cultura BDSM?
Non troppo bene, sostiene la scrittrice e terapista Tania Glyde in un articolo su The Lancet Psychiatry.
Un passo indietro: l’acronimo BDSM indica l’insieme delle pratiche sessuali che ricadono nel contesto di Bondage e Disciplina, Dominanza e Sottomissione, Sadismo e Masochismo. Comportamenti che fanno parte del repertorio sessuale di una minoranza non troppo esigua della popolazione – i dati sono piuttosto variabili, da un 1,8% che emerge da un sondaggio australiano del 2008 all’11-14% di un’ampia ricerca condotta nel 1993 negli Stati Uniti.
Che si tratti di un orientamento, di uno stile di vita o di un’attività occasionale introdotta nella propria vita sessuale, la scelta di una pratica BDSM deve spesso scontrarsi con l’idea che si tratti di comportamento deviato. Parafilia è il termine che è stato usato in ambito psichiatrico per indicare la preferenza sessuale per oggetti, situazioni o individui “atipici”, e fino al 2013 tutte le pratiche che rientravano in questa categoria erano considerate potenziali disturbi psichiatrici. È con la revisione del manuale diagnostico DSM-5 del 2013 che sono stati introdotti due termini distinti per cercare di chiarire il confine tra una preferenza sessuale e un disturbo da curare; per disturbi parafilici si intendono ora soltanto quelle parafilie che causano in chi le pratica un’angoscia che non deriva soltanto dalla disapprovazione sociale, o che coinvolgano persone incapaci di dare un valido consenso.
Fino a quel momento, scrive Glyde su The Lancet, «le persone a cui piaceva il sesso kinky [NdR il termine si potrebbe tradurre come “eccentrico”] erano materiale per casi di studio, considerate danneggiate dal punto di vista psicologico e potenzialmente dannose per gli altri. I dominatori era visti come sociopatici sadisti, e i sottomessi come persone costrette a quel comportamento da abusi passati». Una visione molto diversa da quella che emerge dalla comunità BDSM, le cui pratiche si fondano sul consenso reciproco, e che secondo alcuni studi non presenta livelli di disagio psicologico maggiore di chi pratica un sesso più convenzionale.
«Poiché il BDSM e altri tipi di sperimentazione possono essere rischiosi, e poiché tendono a spingere al limite le zone di comfort degli individui, le persone interessate a queste pratiche hanno stabilito comunità che seguono regole rigide sulla sicurezza e il consenso», scrive su The Atlantic la giornalista Emma Green.
Ed è proprio su questi temi che “Cinquanta sfumature di grigio” sembra rappresentare un passo indietro potenzialmente pericoloso nella rappresentazione del BDSM. Innanzi tutto con la presentazione di un uomo, Grey, che si comporta da stalker sociopatico e che sembra mostrare queste preferenze come risultato di un abuso sessuale subito – una correlazione non comune tra i praticanti di BDSM ma spesso considerata erroneamente una causa di questi comportamenti. La stessa idea di consenso sembra poi essere messa in discussione dalla scarsa convinzione della “sottomessa” Ana, che sembra subire più che scegliere le pratiche a cui si sottopone, rimarcando il pregiudizio di passività e debolezza psicologica legato a questo ruolo.
Le difficoltà che possono incontrare le persone che praticano BDSM non sono molto diverse da quelle che hanno affrontato (e spesso tuttora affrontano) gli omosessuali, suggerisce nel suo articolo Tania Glyde. Nonostante il tentativo di miglioramento introdotto dal DSM-5, non è raro che psicologi e terapisti considerino i comportamenti sessuali “anomali” dei loro pazienti come un problema da trattare prima di poter continuare il trattamento. Non diversamente da quanto poteva succedere fino a pochi decenni fa a un paziente omosessuale – l’omosessualità è stata infatti declassificata da disturbo mentale nel DSM soltanto nel 1973.
La diffusione di una visione patologica dei comportamenti BDSM rischia di ritardare il processo di normalizzazione in atto nei confronti di queste pratiche.
«Quando una società accetta la libera realizzazione sessuale di minoranze, come della maggioranza, un cambiamento è possibile», conclude Glyde. «Oggigiorno, i terapisti che rifiutano o considerano malate alcune persone a causa di comportamenti BDSM stanno perdendo un’occasione di imparare, ma soprattutto stanno mettendo a rischio la salute dei loro pazienti e clienti. Ora abbiamo la possibilità di cambiare le cose».
Fonte: http://www.agoravox.it/Cinquanta-sfumature-di-Grigio-e-le.html
Lasciando da parte la qualità artistica della pellicola, come se la cava “Cinquanta sfumature” nella rappresentazione della cultura BDSM?
Non troppo bene, sostiene la scrittrice e terapista Tania Glyde in un articolo su The Lancet Psychiatry.
Un passo indietro: l’acronimo BDSM indica l’insieme delle pratiche sessuali che ricadono nel contesto di Bondage e Disciplina, Dominanza e Sottomissione, Sadismo e Masochismo. Comportamenti che fanno parte del repertorio sessuale di una minoranza non troppo esigua della popolazione – i dati sono piuttosto variabili, da un 1,8% che emerge da un sondaggio australiano del 2008 all’11-14% di un’ampia ricerca condotta nel 1993 negli Stati Uniti.
Che si tratti di un orientamento, di uno stile di vita o di un’attività occasionale introdotta nella propria vita sessuale, la scelta di una pratica BDSM deve spesso scontrarsi con l’idea che si tratti di comportamento deviato. Parafilia è il termine che è stato usato in ambito psichiatrico per indicare la preferenza sessuale per oggetti, situazioni o individui “atipici”, e fino al 2013 tutte le pratiche che rientravano in questa categoria erano considerate potenziali disturbi psichiatrici. È con la revisione del manuale diagnostico DSM-5 del 2013 che sono stati introdotti due termini distinti per cercare di chiarire il confine tra una preferenza sessuale e un disturbo da curare; per disturbi parafilici si intendono ora soltanto quelle parafilie che causano in chi le pratica un’angoscia che non deriva soltanto dalla disapprovazione sociale, o che coinvolgano persone incapaci di dare un valido consenso.
Fino a quel momento, scrive Glyde su The Lancet, «le persone a cui piaceva il sesso kinky [NdR il termine si potrebbe tradurre come “eccentrico”] erano materiale per casi di studio, considerate danneggiate dal punto di vista psicologico e potenzialmente dannose per gli altri. I dominatori era visti come sociopatici sadisti, e i sottomessi come persone costrette a quel comportamento da abusi passati». Una visione molto diversa da quella che emerge dalla comunità BDSM, le cui pratiche si fondano sul consenso reciproco, e che secondo alcuni studi non presenta livelli di disagio psicologico maggiore di chi pratica un sesso più convenzionale.
«Poiché il BDSM e altri tipi di sperimentazione possono essere rischiosi, e poiché tendono a spingere al limite le zone di comfort degli individui, le persone interessate a queste pratiche hanno stabilito comunità che seguono regole rigide sulla sicurezza e il consenso», scrive su The Atlantic la giornalista Emma Green.
Ed è proprio su questi temi che “Cinquanta sfumature di grigio” sembra rappresentare un passo indietro potenzialmente pericoloso nella rappresentazione del BDSM. Innanzi tutto con la presentazione di un uomo, Grey, che si comporta da stalker sociopatico e che sembra mostrare queste preferenze come risultato di un abuso sessuale subito – una correlazione non comune tra i praticanti di BDSM ma spesso considerata erroneamente una causa di questi comportamenti. La stessa idea di consenso sembra poi essere messa in discussione dalla scarsa convinzione della “sottomessa” Ana, che sembra subire più che scegliere le pratiche a cui si sottopone, rimarcando il pregiudizio di passività e debolezza psicologica legato a questo ruolo.
Le difficoltà che possono incontrare le persone che praticano BDSM non sono molto diverse da quelle che hanno affrontato (e spesso tuttora affrontano) gli omosessuali, suggerisce nel suo articolo Tania Glyde. Nonostante il tentativo di miglioramento introdotto dal DSM-5, non è raro che psicologi e terapisti considerino i comportamenti sessuali “anomali” dei loro pazienti come un problema da trattare prima di poter continuare il trattamento. Non diversamente da quanto poteva succedere fino a pochi decenni fa a un paziente omosessuale – l’omosessualità è stata infatti declassificata da disturbo mentale nel DSM soltanto nel 1973.
La diffusione di una visione patologica dei comportamenti BDSM rischia di ritardare il processo di normalizzazione in atto nei confronti di queste pratiche.
«Quando una società accetta la libera realizzazione sessuale di minoranze, come della maggioranza, un cambiamento è possibile», conclude Glyde. «Oggigiorno, i terapisti che rifiutano o considerano malate alcune persone a causa di comportamenti BDSM stanno perdendo un’occasione di imparare, ma soprattutto stanno mettendo a rischio la salute dei loro pazienti e clienti. Ora abbiamo la possibilità di cambiare le cose».
Fonte: http://www.agoravox.it/Cinquanta-sfumature-di-Grigio-e-le.html
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